Il 18 Luglio 2014 decidiamo di intraprendere la salita al Monte Glacier (m. 3.185), gita già rimandata in precedenza a causa delle cattive condizioni meteo. Il tempo anche il giorno scelto non è per nulla bello, le cime delle montagne sono avvolte tra le nuvole, ma decidiamo comunque di tentare, sperando in un miglioramento pomeridiano. Partiamo abbastanza di buona lena da casa, sono le 9 quando ci incamminiamo dal parcheggio di Dondena. Superato il rifugio e dopo un pezzo di carrozzabile (o carrereccia) Alta Via n.2 della Valle d’Aosta, il sentiero per il Glacier si diparte sulla destra.
Attraversiamo un torrente, percorriamo uno splendido pianoro fiorito, poi inizia la salita vera e propria con ampi tornanti che si inerpicano su prati scoscesi con una pendenza costante ma gradevole.
Quelli che avevo già soprannominato i “tornanti del Diavolo” infatti si rivelano davvero tranquilli; la marcia procede senza intoppi fino al termine della zona erbosa, che lascia infine il posto alla pietra. Siamo già molto in alto, ma purtroppo il paesaggio è completamente assente a causa di una coltre di nubi che copre completamente la vallata sottostante. Davanti a noi si scorge un piccolo lago formato dalla neve in scioglimento. Più avanti ce n’è un altro, più grande, e parecchia altra neve. E’ un po’ strano vederne ancora così tanta, ma forse siamo anche noi a non renderci conto che siamo già molto, molto in alto. In effetti da lì a poco, attraversando i primi nevai che nascondono una pietraia insidiosa, giungiamo al Colle Fussi (m. 2.912).
Giusto uno sguardo sulla vallata dall’altra parte, selvaggia e ancora piena di neve, e ripartiamo. Davanti a noi c’è qualche altro gruppo di escursionisti, la cosa ci incoraggia e tiriamo avanti, nonostante non sia piacevole attraversare tanti nevai. Non sono ripidissimi, ma dannatamente lunghi da percorrere senza altro aiuto che dei bastoncini da trekking. La neve è abbastanza morbida, seguiamo le tracce di chi ci ha prededuto fino a dove la via si fa molto più ripida. Il sentiero è sepolto nella neve, saliamo scalando una brutta pietraia fino a giungere alla cresta. Ci raggiunge un signore di mezza età con i sue due bambini; li lasciamo passare davanti volentieri, seguendoli su per un ultimo nevaio che va questa volta non attraversato ma scalato. Dopo una quindicina di minuti arriviamo sulla parte sommitale della montagna, un panettone di sfasciume e pietraglia franosa. Un ultimo strappo e siamo sul filo di cresta sommitale, che si percorre quasi in piano fino alla croce di vetta. E’ circa l’una, nonostante diversi dubbi se proseguire o meno siamo arrivati in cima all’incirca nei tempi indicati (3 ore e 15 minuti dal Rifugio Dondena).
Purtroppo il tempo rimane pessimo e solo qualche rapida schiarita ci permette di intuire il paesaggio sotto di noi, ma poco si svela oltre il profilo della cresta davanti e dietro di noi. Qualche cima bianca emerge dalle nuvole, ma è davvero una magra consolazione. Mangiamo qualcosa ma non ci esalta troppo l’idea di rimanere da soli in cima. Decidiamo quindi di scendere insieme ai due ragazzini e al loro papà.
Tutto bene il nevaio più ripido e verticale: la neve è molle e il tallone sprofonda bene, garantendo un buon appoggio. Il papà per sicurezza ha imbragato i due pargoli e li tiene con un pezzetto di fettuccia sintetica. Li seguiamo tagliare diagonalmente il grande nevaio che riporta sul sentiero vero e proprio.
E’ una lunga, forse troppo lunga passeggiata su una tavola innevata inclinata di 45 gradi. I tre si allontanano e noi rallentiamo. La neve è sempre meno fresca, e le impronte di chi ci ha preceduto meno evidenti, troppo poco evidenti per infilarci i piedi. Incontriamo diversi tratti ghiacciati. Con i piedi doloranti scalcio la neve per creare un punto d’appoggio per il passo successivo. Andiamo davvero piano. Ad un certo punto, sento scivolare il piede, più del solito: sto cadendo! Ho una bacchetta ben piantata nella neve, la tengo salda, ma ormai sono pancia a terra. La bacchetta si spezza, e scivolo giù, come un gatto sul bidet. So che poco sotto c’è la pietraia. Mi giro di schiena e cerco di mirare bene il punto di atterraggio. L’impatto è perfetto, e me la cavo solo con un po’ di paura. Anche la mia compagna di spedizione si è spaventata, ma la riassicuro e torno lentamente verso di lei risalendo qualcuno dei 10-15 metri di quota persi.
Padre e figli stanno scomparendo all’orizzonte e noi siamo ancora sulla neve. Avanzare è troppo difficile, la stanchezza fisica e mentale si fa sentire. Decido che la cosa migliore è togliersi dalla neve, scendere fino alla pietraia e poi costeggiare il nevaio il più possibile fino a tornare al sentiero. La mia compagna è stanca, ma per fortuna ho trovato una buona tecnica per scavare scalini nella neve e scendere. Scendiamo lentamente, anche un minuto a passo, ma alla fine raggiungiamo un pietrone dove possiamo finalmente riposarci un po’. Da qui una breve traversata quasi in piano ci porta alla pietraia. Il gran nevaio è alle spalle.
Da qui avanziamo in linea retta scegliendo la minor pendenza su pietre grosse e piccole, a volte ballerine. Mi raccomando di far molto con calma perchè siamo molto stanchi e cadere qui può essere molto pericoloso. Sembra fatta, ma dobbiamo mantenere la concentrazione. Ho un mal di testa formato famiglia e le dita dei piedi mi fanno male. Riguadagnamo il sentiero, che prevede ancora l’attraversamento di qualche nevaio. Non ne possiamo più, ma aggirarli richiederebbe troppo. Per fortuna qui la neve non è giacchiata. Un bel sospiro di sollievo quando anche l’ultimo nevaio è alle spalle e, oltre la grigia pietraia, si intravede l’erba dei prati.
Ci fermiamo ad osservare qualche camoscio, cogliendo l’occaione per rilassarci un po’, quando un lampo seguito da un crepitio assordante ci riporta alla realtà: ci mancava solo il temporale! Scendiamo in tutta fretta lungo i Tornanti del Diavolo, inseguiti dalla pioggia che comincia a cadere. Ogni tuono è un brivido, anche se per fortuna c’è una bella distanza dal lampo, quindi la parte brutta del temporale non è così vicina. Un camoscio ci passa davanti al galoppo correndo a perdifiato verso la piana sottostante. Quando ci arriviamo anche noi, la pioggia è finita e possiamo goderci il prato e qualche marmottona che esce un po’ spaesata dalla sua tana. E’ un gioco da ragazzi catturarle con il nuovo telezoom da 60x!
Dopo quest’ultimo safari fotografico alla marmotta è finalmente ora di riguadagnare il rifugio, goderci una bella cioccolata calda con panna, e disdire tutti gli impegni per la serata perchè abbiamo solo voglia di una cena veloce da sparecchiare ed un bel letto comodo!
Bottom line. Per noi è stata una giornata fin troppo movimentata, a riprova che in montagna tutto può divenare semplice o difficile (e viceversa) in un attimo. A mio parere però la gita è consigliabile (in buone condizioni meteo e con meno neve) per diverse ragioni:
- La quota è molto interessante: è un tremila alla portata di qualsiasi escursionista miniamente allenato
- Il sentiero è molto bello e facile perlomeno fino al Colle Fussi, un piacevle riscaldamento agli “strappi” finali. Buon compromesso tra dislivello e spostamento, 3 ore e 15 passano velocemente
- Il paesaggio dev’essere davvero fantastico, purtroppo ne ho solo letto qualche descrizione ed intravisto qualche scampolo (es. il lago Miserin che spuntava dalla nebbia molto sotto di noi)