In questo articolo voglio raccontare la mia prima (e, credo, ultima) esperienza al Vinitaly, edizione 2018. Questa fiera è di gran lunga la più importante e la più grande d’Italia che abbia come argomento il vino. Le mie aspettative, facendo il paragone con la presentazione della guida Vitae 2017 a cui avevo partecipato l’anno passato, erano quelle di una bolgia allucinante, con sterminate possibilità di percorsi e di scoperte, ed il concreto rischio di perdersi per strada. Avevo bisogno di un piano d’azione (si parte sempre così), e dopo essermi stilato un elenco di vini interessanti e particolari per ogni regione (tutta roba strana: dalla Verdea di San Colombano al Lambro al Moscato Fior d’arancio, dalla Villagemma di Masciarelli alla Chimbalza di Dettori, e così via) strada facendo ho stabilito di visitare solo due padiglioni, anzi tre: Campania, Friuli Venezia Giulia (con magari una puntatina in Alto Adige, visto che erano insieme), e “resto del mondo”, sezione per la verità piuttosto scarna.
Una volta varcati i cancelli della Fiera di Verona, ed entrato timidamente in uno dei padiglioni, la mia prima impressione è quella della… sterminatezza. Tantissimi stand, per lo più produttori, ma anche distributori ed altro, ed io col mio elenco di vini scritti a mano sul quadernetto… Adesso dove vado? Per fortuna il giorno scelto per la visita, il mercoledì, l’ultimo giorno di fiera, era più che tranquillo ed avevo tutti gli espositori a mia completa disposizione, l’atmosfera era tranquilla e sembrava che non avrei mai fatto coda per un assaggio – davvero una cosa eccezionale. Allora dai, cominciamo.
Sto per dirigermi in Campania quando mi ricordo del Kius, spumante metodo classico fatto col Bellone, vitigno autoctono laziale. Ho letto che il produttore, Marco Carpineti, è in fiera. Ed allora, il primo assaggio è per lui. Allo stand di Marco Carpineti assaggio dunque questo Kius, un ottimo spumante, di cui mi colpisce l’intensità gusto-olfattiva e la mineralità, merito dei terreni tufacei su cui cresce l’uva. E’ vinificato sia in bianco (brut) che in rosso (extra brut), davvero lo consiglio per un aperitivo alla grande, ma si sposa benissimo anche con molti primi piatti. Ma il Bellone viene anche vinificato in anfora, il vino è Nzu, “insieme”, un ottimo bianco di cui mi colpiscono ancora intensità, sapidità ed uno splendido colore. Sempre rimanendo sui bianchi provo anche il Moro, assemblaggio di greco bianco e greco giallo (splendido aroma) e, per finire, l’eccezionale Ludum, passito ottenuto dall’appassimento naturale dei grappoli in vigna: vino dal calore e dal bouquet aromatico eccezionale, in cui predominano le note di miele d’acacia e di tiglio, e che all’assaggio non tradisce, ma anzi amplifica, le sensazioni percepite al naso. L’inizio non poteva essere dei migliori, ma ora è tempo davvero di scendere in Campania.
Di questa regione mi affascinano, dal punto di vista enologico, i tanti vitigni autoctoni, le cui origini si perdono spesso nell’antichità, ed i terreni vulcanici che conferiscono ai vini spiccate note minerali. Ho in mente Ischia ed i Campi Flegrei, ma mi imbatto prima in una ricca rappresentanza dell’Irpinia, che tra l’altro sta organizzando un buffet flash, di cui approfitto assaggiando alcuni ottimi formaggi stagionati. Mentre vagabondo tra gli stand, un signore mi invita ad assaggiare i sui vini. Si tratta dell’azienda agricola I Capitani di Avellino. Voglio rimanere sempre sui bianchi, e la loro proposta è fatta dei vitigni classici e più famosi della Campania: falanghina, fiano, greco di tufo, che però su questo terreno così particolare assumono un carattere tutto loro. Li degusto nell’ordine; Clarum, una Falanghina del 2017 che mi colpisce per l’aroma floreale intenso, con spiccate note di gelsomino e altri fiori bianchi. Il Gaudium, Fiano di Avellino, sempre della stessa annata, ha aromi ancora più strutturati ed avvolgenti. In comune hanno il colore, un giallo paglierino con riflessi verdolini estremamente tenue ed elegante. Segue il Serum, Greco di Tufo, molto particolare, ed infine il Faius, un assemblaggio dei tre vitigni: Greco, Fiano e Falanghina (il fiano fa un breve passaggio in legno). Assaggio l’annata 2016, prodotta in circa 10,000 bottiglie. E’ un ottimo vino. La caratteristica di tutti questi bianchi è un ottima resa aromatica accompagnata ad una buona intensità e persistenza gusto-olfattiva che fa sì che il vino non “scompaia” all’assaggio ma anzi possa ben accompagnare un ampio ventaglio di portate.
Ringrazio il cortese e preparato rappresentante dell’azienda e mi fermo ad uno stand dove campeggia una gigantografia ischitana. Chiaramente non conosco i produttori – è un viaggio di scoperta – ma so dell’esistenza della Biancolella, vitigno autoctono dell’isola, e chiedo informazioni. La signora al banco (azienda Cenatiempo), dagli ipnotizzanti occhi azzurri incorniciati da lunghi capelli corvini, è molto gentile e mi guida nell’assaggio dei loro prodotti. Comincio dal loro Biancolella; è un vino dal colore tenue, profumi delicati e, all’assaggio, di acidità importante. Il Kalimera è un cru ottenuto da una vecchia vigna di proprietà, di più di 40 anni, sempre a base Biancolella, fresco, sapido ma più rotondo e morbido del precedente. Segue il Forastera, coraggiosa vinificazione monovarietale dell’omonimo vitigno autoctono ischitano, spalla storica della Biancolella, poco gradito ai contadini per la sua coltivazione più difficoltosa rispetto al precedente. Mi è parso un bianco rotondo, molto meno fresco del precedente e leggermente profumato. Provo infine il loro Rosato, Per e Palummo, guarnaccia, aglianico vinificate in bianco.
Noto poi, proprio di fronte al loro stand, quello dell’azienda Salvatore Martusciello, di cui avevo sentito parlare al corso di sommelier. Infatti mi ero appuntato il loro Sette Vulcani come vino da provare. Qui siamo nel bel mezzo del supervulcano dei Campi Flegrei, a Pozzuoli, un’enorme caldera a livello del mare. I particolari terreni non solo dovrebbero donare spiccata mineralità al vino, ma permettono di coltivare le viti a piede franco, cioè senza bisogno di innesto su vite americana, causa la loro inospitalità per la fillossera. L’offerta dell’azienda comprende interamente vini biologici. Assaggio quindi il Sette Vulcani Falanghina, che mi colpisce principalmente per intensità e bouquet di profumi ed il Sette Vulcani Piedirosso, vitigno autoctono che dà un vino tannico ma più morbido dell’Aglianico. Infine mi riservo un momento per il loro Asprinio di Aversa, il Trenta Pioli. Anche qui parliamo di vitigni a piede franco, coltivati nella caratteristica forma dell’alberata, cioè facendo arrampicare le viti liberamente su alberi di pioppo; questa tecnica di coltivazione della vite, tra l’altro antichissima, fa sì che per la raccolta servano scale lunghissime, di 15 o anche 20 metri, da qui il 30 pioli del nome del vino. Si tratta di un metodo Martinotti, brut, profumato, fresco ma sicuramente non acidulo come l’Asprinio fermo, sensazione forse anche cagionata da una certa morbidezza che per uno spumante non è una caratteristica comune. Mi delude un po’ all’assaggio, mi sarei aspettato una maggiore intensità, ma bisogna ricordare che si tratta pur sempre di un Martinotti; mi vien detto che è in preparazione sulla stessa base anche un Metodo Classico, che penso saprà sfruttare al meglio le interessantissime qualità di questo vitigno autoctono per la spumantizzazione (ripenso al Kius di prima, che ho trovato davvero eccezionale). Ringrazio e scrocco dei grissini fatti con la pasta dei taralli napoletani. Ormai ho assaggiato un bel po’ e se voglio vedere qualcos’altro, è meglio a malincuore abbandonare la Campania, prendersi una pausa, e poi decidere come impiegare al meglio le forze rimaste. Prendo un panino al bar e lo mangio sulle panche di legno all’aperto, godendomi il bel sole.