Benvenuti da Filippo

Archeowine

Complice il trasloco dalla vecchia cara casa di Ivrea, ritrovo due interessantissime bottiglie rimaste in vetrinetta per anni ed anni, pronte per ospiti che non sarebbero mai arrivati. Che fare? Relegarle in cantina, buttare o… Arrischiarsi ad aprire? Le annate sono impietose: 2008, 2009. Inoltre, per ovvi motivi la conservazione delle bottiglie non è avvenuta in cantina o comunque a temperatura controllata, quindi direi che c’è ben poca speranza di trovare qualcosa di decente, quindi che fare?

Ovviamente, stappiamo.Seguitemi.


La prima bottiglia è di un raro vino Thailandese. Vi sfido a trovarne uno da queste parti! Stiamo parlando di Monsoon Valley Shiraz, annata 2008, prodotto da Hua Hin Hills Vineyard, alle spalle della regione costiera di Hua Hin, nella Thailandia continentale, poco più a sud di Bangkok e prima storica località turistica della Terra dei Sorrisi.

Si tratta di un vino rosso di media struttura, barricato, tratto da Syrah (Shiraz, con la dizione anglofona) al 100%. Il titolo alcolometrico è di 13.5 % alc/vol.

Degustazione

Colore rosso granato paludato, tendente al marroncino. E’ un mare cupo, introverso, meditabondo. Consistente, limpido.

Al naso un forte sentore di mandorle, di frutta secca stantia. Noci vecchie, andate a male. Tannino sfatto, distrutto da lunghi anni in bottiglia. Roteando il bicchiere esala fitte eteree, se disturbato dal suo lungo sonno, si ribella, morde. Con difficoltà si coglie l’aspro profumo della mora. Profilo appiattito dal tempo.

Al sorso è secco e abbastanza sapido, morbido, piacevolmente caldo, freschezza e tannicità al limite dell’abbastanza. Buona persistenza, corpo un po’ debilitato dall’età.

Chiaramente è un vino vecchio. L’età l’ha minato nell’aspetto, sì distinto ma ormai fin troppo austero, senza più una goccia di vivacità. Soprattutto ha colpito nei profumi, i terziari sono tutti andati e virati in uno sgradevole sentore di frutta secca passata. All’assaggio ancora tiene botta, risultando di buon corpo e piacevolezza, solo leggermente scomposto nella finezza e nell’armonia.

Si può immaginare che fosse un buon vino, che avrebbe sfoderato le sue armi migliori qualche anno dopo l’imbottigliamento (tre, quattro, cinque al massimo). Ne sono passati ben tredici, ora arranca col bastone, anzi con le stampelle. E non possiamo incolpare il tappo, perché a vite. Non si è acetificato, non è marsalato, è il legno che l’ha tradito.

Lasciamolo ossigenare ed aprirsi un po’. Il profumo sgradevole di noce si affievolisce sostanzialmente, mentre si fanno strada smalti. La forte gradazione alcolica (13,5% vol) si fa sentire.

L’abbiamo provato non su cibo Thai ma su una modesta ma esotica insalata di frijoles, pomodori e cipollotti, e devo dire che si è rivelato un buon abbinamento.  L’alcolicità teneva a bada la piccantezza del cipollotto e lo marcava stretto.


L’altra bottiglia è un bianco, Cinque Terre Costa de Sera di Riomaggiore, annata 2009. Siamo in Liguria, nella Ciqnue Terre e più precisamente nel territorio di Riomaggiore, il loro borgo più orientale, che conosco bene perchè ebbi occasione tanti anni fa di soggiornarvi per qualche giorno. Vino bianco giovane ma direi di media struttura, tratto dalle tipiche viti locali a bacca bianca e cioè Bosco, Vermentino ed Albarola. Come alcool siamo a 13 gradi. Suppongo di non dovermi soffermare troppo sulla descrizione del territorio di orgine, famoso in tutto il mondo, fatto di vigneti a picco sul mare, ricavati su ripide scogliere spazzate dalla brezza marina. Piccola produzione e vino di eccellente qualità sono il risultato di un processo produttivo che rappresenta perfettamente ciò che si definisce “viticoltura eroica”.

Degustazione

Tappo di simil-sughero sintetico, perfetto. Colore giallo dorato che vira all’ambrato, limpido, abbastanza consistente. Al naso sentori di frutta secca molto intensi, albicocche appassite, pesca sciroppata, melassa. Sentori eterei ed animali, condito di un pizzico di freschezza minerale. Ricorda un passito, solo la pesantezza degli aromi e una certa carenza di vivacità tradisce un vino vecchio.

In bocca fresco, secco, sapido. Abbastanza morbido, caldo, amarognolo. Tiene la struttura, e stride il contrasto tra i profumi di passito e l’assaggio di un vino secco. Lunga persistenze tanniche di mandorle verdi e albicocche secche.  Punge con l’acidità, poi rapido scompare lasciando però dietro di sé questa lunga scia persistente di frutta secca.

Ricordo di averlo bevuto nel pieno dello splendore, e chiaramente era un’altra cosa. Un bianco eccezionale, di una terra splendida ma che concede con parsimonia i suoi tesori. Ha tenuto finché ha potuto, poi si è tramutato sostanzialmente in un orange wine, un vino da meditazione checomunque non è da disprezzare, si può ancora centellinarne qualche sorso.

I due vini in bottiglia e nel calice.


A distanza di un paio di giorni…

Torniamo alle nostre bottiglie per un assaggio a posteriori, quando i nostri vini hanno ampiamente completato ogni sorta di ossigenazione.

Il Bianco delle Cinque Terre ha virato al completamente marsalato nei profumi. All’assaggio è ormai fortemente amarognolo, sa un po’ di nocciole andate a male, caprino ammuffito, ormai imbevibile.

Il Syrah Thailandese invece ha perso quello sgradevole odore di frutti secchi stantii, al naso non è neanche male, media intensità, sentori eterei, profumi di smalti, vernice, idrocarburi, ma anche balsamico, cuoio, legno morbido, non invadente.  All’assaggio si è un po’ acidificato, ma mantiene calore ed una certa morbidezza che lo rendono anche abbastanza piacevole da bere;  innegabile una punta di marsalato in bocca, che ci ricorda appunto i vini marsala secchi. Un vino da meditazione, un po’ da centellinare, ma non da buttar via.

 

E così, a distanza di circa tredici anni (il bianco aveva un anno di vantaggio, ma dopo tanto tempo la cosa risulta piuttosto ininfluente), stappo finalmente queste belle bottiglie. Ormai non c’era più posto per loro nel “tabernacolo dei ricordi” e non mi andava di relegarle all’angolo dei relitti in cantina. Non sorprendentemente, il rosso ha tenuto meglio del bianco. Diciamo che era predisposto per farlo. Il bianco puntava tutto sulla giovinezza, sulle erbe di campo, sulla freschezza. Questi vitigni diventano anche sciacchetrà (ed un po’ il vecchio Cinque Terre nei profumi lo ricorda), ma la lavorazione è completamente diversa. Per un syrah , un po’ di invecchiamento in bottiglia è sempre gradito. Qui chiaramente siamo oltre tempo massimo, ma dopo lo shock iniziale il vino si è ripreso e sa ancora comunicare qualcosa del suo carattere originario: forte, genereoso, abbastanza corposo, ma forse un po’ troppo legnoso (vista la provenienza, il target molto probabilmente non era l’Europa ma certi vini australiani).

Peccato non averli bevuti nel pieno della loro evoluzione, questa esperienza riesumativa può solo restituire un vago ricordo di cosa erano intesi essere, proprio come quando gli archeologi trovano i resti di qualche oggetto antico e possono solo immaginarsi, studiandone i particolari, aspetto e funzione originaria. Sulla Hua Hin Valley Vineyard potete trovare maggiori informazioni al loro sito internet qui: https://www.monsoonvalley.com/en. Davvero tutta da scoprire la viticoltura Thailandese, a latitudini e clima impensabili, sia che si tratti del piovoso e più freddo nord (alcuni vigneti si trovano a Chiang Mai, interessante sarebbe il confronto con la storica zona vocata di Da Lat, in Vietnam), sia dell’area del Golfo della Thailandia, calda e umida, a ridosso del mare.

Per quanto riguarda il Bianco delle Cinque Terre è sicuramente più facile da reperire alle nostre latitudini, e ce lo possiamo pure facilmente godere in loco, che è tutta un’altra cosa. Il sito della Cantina Cinque Terre (https://www.cantinacinqueterre.com) comunque vende anche online, non tutte le etichetta ma comunque si tratta di vini ad un ottimo rapporto qualità prezzo.

Dopo questa odissea nel passato niente di meglio che tornare alla realtà con un bel bicchiere di bianco e due crostini per un frugale apertivo, vi saluto e spero che l’avventura vi abbia intrigato come sempre capita a me quando stappo qualche vecchia bottiglia.

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